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Pena Capitale
di Elena Fuccelli

 

  Faceva freddo. Kerim si avvicinò le palme delle mani alle nuvole d’alito di fronte alle labbra. Freddo, e le pile della maledetta radio che dovevano essere finite, proprio adesso che era notte fonda ed anche ‘Nduma, il nigeriano, se ne era andato a casa a dormire.
  "Se non altro, non piove più" – pensò il ragazzo. La pioggia era quello che detestava di più, di quel lavoro. Anche il freddo, aggiunse mentalmente. La pioggia, il freddo e pure dover restare alla pompa di benzina per tutta la notte da solo, sotto l’insegna luminosa blu-gialla che recitava <aperto 24 ore>, con i soldi col taglio giusto per il self service. Con la maledetta radio fuori uso non avrebbe avuto nient’altro da fare se non immaginare i ricchi clervillesi del palazzo di fronte, loro che avevano un lavoro regolare di giorno e tornavano a dormire in tiepide case la sera, si disse. Kerim riprese la radio ed alzò il volume al massimo, accostando l’orecchio. Questa gli restituì un suono flebile, più simile ad un ronzio nel quale affioravano voci indistinte. Provò la rotella della sintonia, facendola scivolare avanti pianissimo, uno scatto dopo l’altro. Avvertì un rumore più chiaro e per un istante sperò che fosse la radio. Si voltò: accanto alla pompa si era fermata una lucida auto nera. Posò la radio ed accorse, preparando il sorriso stampato per i clienti. Si bloccò, vedendo che dalla macchina era scesa una donna. Il sorriso gli si fece più ampio, abbracciando con lo sguardo la figura elegante dai capelli biondi che si avvicinava, entrando nel cerchio di luce dell’insegna. Il viso avvolto nella nebbiolina gelata del respiro gli ricordava qualcosa. Certo, i giornali! Non li aveva mai letti, in quella lingua diversa dalla sua gli era tanto difficile, ma aveva visto la foto. Quella doveva essere una diva del cinema! Quando lo avesse saputo il nigeriano, che si era perso…
  Un sibilo. Kerim pensò alla radio, prima di capire di essere stato colpito. La diva di fronte a lui si velava sempre più di nebbia luminescente, nebbia blu gialla come l’insegna, insegna che odiava, le ginocchia si piegavano, sentì qualcosa di duro e capì di essere a terra, la terra bagnata dalla pioggia gelida ed il freddo si impadronì di lui.
  Eva Kant infilò il lancia-aghi in tasca con un gesto secco, poi afferrò il ragazzo per le braccia e lo trascinò rapidamente verso la tettoia. Lo posò al riparo, poi forzò la saracinesca, per cercare l’interruttore. L’insegna si spense.
  Premette il contatto del radio orologio:
  "Tutto a posto, caro" – disse – "Ho messo a dormire il ragazzo che avrebbe potuto vederci".
  "Grazie, amore…" – Diabolik rispose. Pochi istanti dopo, la snella figura nera comparve sopra il muro di cinta del giardino a piano terra. In mano aveva una balestra. Puntò, sparò. La balestra si arpionò alla ringhiera sulla terrazza dell’attico. Diabolik si assicurò che tenesse, poi si slanciò. Sulla facciata scura la forma nera era praticamente invisibile. Superò il primo piano, il secondo.
  Eva sussultò. Al terzo piano, qualcuno emerse dall’ombra per affacciarsi alla finestra. Diabolik lasciò la corda e si nascose rapidamente sotto la ringhiera, rimanendo là, appeso nel vuoto come ad una parete di roccia. L’ombra sparì all’interno e chiuse la persiana. Lui si issò sul balcone e si appoggiò per un istante sul parapetto per afferrare di nuovo la corda. Lei lo chiamò.
  "Stai attento… Per favore, caro" – Si pentì immediatamente di aver parlato.
  "Certo, amore. Non ti preoccupare…" – poteva quasi sentire il sorriso nelle parole di Lui. Era sempre così dannatamente sicuro di sé e dei suoi piani… Lei invece non riusciva ad essere tranquilla, neppure dopo anni di quella vita. In ogni momento, poteva andare storto qualcosa… E allora, sarebbe stata finita.
  Respinse i pensieri tetri e corse all’auto. Si sedette al posto di guida e prese dal portaoggetti il binocolo ad infrarossi. Di fronte a lei, l’unica luce era quella proveniente dalla portineria del palazzo, dietro la pensilina lunga di gusto americano. Risalì lungo la facciata, fino ad inquadrare la figura del suo compagno che si arrampicava rapidamente lungo la parete.
  "Ha raggiunto l’attico" – notò Eva. La figura si issò oltre la ringhiera e ritirò la corda. Poi, sparì verso l’interno. Eva posò il binocolo, aspettando. Fissò la pompa di benzina, la strada, il furgone bianco parcheggiato di fronte, cercando di resistere alla tentazione di chiamarlo.
  "Eva" – si sentì chiamare – "Ho riempito l’appartamento di narcotico e sono entrato. Dormono tutti, tranquillamente. Farò il pentotal al giudice Morissot, per sapere dov’è la cassaforte"
  "D’accordo. Resto in attesa"
  Lui sapeva che non c’era bisogno di spiegazioni fra loro: lei era a conoscenza da un pezzo del piano per quella sera. Però lei aveva bisogno di sentire dalla sua voce che andava tutto bene. Anche questo, lui lo sapeva molto bene.
  La porta si aprì. Il portiere di notte si affacciò, e pochi istanti dopo una piccola fiammella le fece capire che l’uomo si stava accendendo una sigaretta. Eva sperò che il freddo della notte autunnale lo spingesse a tornare presto in guardiola, o si sarebbe trovato direttamente sulla loro via di fuga… E allora, quell’uomo non sarebbe sopravvissuto.
  Stava guardando nella sua direzione. Lei era al buio, ma si schiacciò ugualmente contro il sedile, stringendo le labbra. In tasca aveva un altro lancia aghi carico. Forse avrebbe dovuto eliminare subito il problema…
  "Eva…" – si sentì chiamare – "Tutto procede secondo i piani. Il ministro mi ha dato anche la combinazione della cassaforte… HL501. E’ nascosta dietro un pannello, in bagno"
  "Non ci sono altri sistemi d’allarme?" – domandò.
  "Ho domandato più volte al ministro se ce ne fossero e mi ha risposto di no…" – disse lui – "Ecco… Ho aperto il pannello. Provo la combinazione…"
  Un urlo! Il lungo sibilo di una sirena invase la notte.
  "Che succede?" – Eva si attaccò alla radio – "Amore, rispondimi! Rispondimi!"
  D’istinto, accese il motore. Oltre il vetro, vide il portiere voltarsi di scatto nella sua direzione, guardarla con gli occhi sbarrati.
  "Eva…" – la voce di lui era incerta, come se arrivasse da un altro pianeta – "C’era un allarme collegato alla combinazione! Appena ho fatto scattare l’ultimo numero della combinazione, è uscita fuori una lama dalla manopola. Mi ha ferito al polso… "
  Le finestre del palazzo si stavano illuminando. Il portiere scattò di corsa verso la guardiola, la raggiunse, si rifugiò dentro.
  "Amore, devi scappare! Lascia stare il denaro! Non ci metteranno molto a chiamare la polizia…"
  "Eva…" – la sua voce era un tremito – "Il graffio al polso era… Niente… La lama doveva essere…"
  "Caro!"
  "Va via…" – disse – "Scappa! Non riesco più ad alzarmi… Il veleno…"
  "Non posso lasciarti!" – gridò Eva – "Vengo su a prenderti!"
  "Non… farlo! Ah… Solo se resti libera potrai… Salvarmi… Amore…"
  Fece scattare lo sportello. Si precipitò fuori, verso il portone, ma ombre scure si stavano già affacciando alle finestre illuminate. La notte si stava riempiendo di voci agitate, di grida. Dentro di lei urlava l’angoscia. C’erano sette piani prima dell’attico. Salire, forzare la porta, prenderlo, portarlo giù di peso con l’intero palazzo in allarme… No, non ce l’avrebbe mai fatta!
  Una nuova sirena si sovrappose alla prima. La polizia! Tornò alla macchina, si tuffò nello sportello. Il portiere uscì di nuovo fuori di corsa, brandendo una pistola. Sparò. Il proiettile rimbalzò sulla carlinga blindata della macchina.
  La radio ormai taceva. Le mani si aggrapparono al volante, premette l’acceleratore. La Jaguar balzò in avanti, rombando. Sentì dietro di lei il rumore secco di altri spari infrangersi contro la carrozzeria, mentre le luci sciabolanti dei fari incrociavano il blu intermittente dell’autopattuglia. Frenò, sbandò, riprese controllo. Trovò un varco fra la massa delle auto in sosta e il muro del palazzo, si infilò salendo sul marciapiede. La fiancata destra urtò contro la parete, sprizzando scintille metalliche. Nello specchietto, vide la pattuglia voltarsi di colpo, pattinando sull’asfalto umido di pioggia, rimettersi in carreggiata. Il retrovisore si riempì della luce dei fari dell’auto nemica.
  Presto Ginko sarebbe stato avvertito. Presto avrebbero messo posti di blocco ovunque. Accelerò, al massimo. Non poteva permettere che le arrivassero addosso. Piegò rapidamente verso destra. Gli agenti ne sarebbero stati contenti, andava verso il centro, dove le pattuglie erano più numerose ed era più facile fare dei posti di blocco. Alla sua destra risuonò la sirena di un’altra pattuglia. Si tenevano in distanza, per fortuna. Dovevano essere stati avvertiti di non avvicinarsi.
  "Meglio per voi! Non sarò costretta ad uccidervi!" - pensò. Forse…
  Dovevano avere già messo dei posti di blocco, probabilmente sul rettilineo di via delle peonie. Non riusciva a vedere chiaramente la strada di fronte a sé. Quanto mancava al centro commerciale Auran? Adesso, c’erano almeno tre auto dietro di lei.
  Di scatto sintonizzò la radio sulle frequenze della polizia. Riconobbe la voce dell’ispettore Ginko. Come avevano fatto ad avvertirlo così presto?
  "…Spingere l’auto verso i posti di blocco di via delle peonie. Ripeto, non tentate di avvicinarla, ma non perdetela di vista!"
  "Ricevuto" – rispose una voce sconosciuta. La voce era incrinata dall’eccitazione – "In questo momento, stiamo attraversando l’incrocio con via delle camelie, in direzione di via delle peonie… Abbiamo imboccato via delle peonie. In fondo, vediamo il nostro posto di blocco… No, un momento, ha cambiato direzione. Ma…"
  "Che succede?"
  "Sta… Sta puntando contro un palazzo! Vuole schiantarsi!"
  Di fronte a lei, c’era l’immensa sagoma di un centro commerciale, coperto dai tubi innocenti dei restauri in corso. Sotto l’insegna di un rosso brillante, il velario che copriva i tubi pubblicizzava la marca di un cellulare. Eva afferrò il telecomando. Il velario si sollevò leggermente, rivelando uno stretto passaggio fra i tubi innocenti. Di fronte al passaggio si allungarono delle tavole formando una passerella sopra le scale. Eva salì sulla passerella, entrando nel passaggio.
  "Sta entrando nel centro commerciale!"
  "C’è un’uscita dall’altra parte! Oltre il posto di blocco!"
  "La seguiamo!" – sentì urlare.
  "Spiacente per voi" – pensò Eva, premendo il telecomando. Istantaneamente, il velario si staccò dai tubi innocenti, ricadendo sulla strada sottostante. Le pattuglie sbandarono, catturate dalla rete del velario, rimasero incastrate. Gli agenti urlarono, ed urlarono ancora vedendo che dall’interno dei tubi Innocenti si stavano lanciando dei piccoli arpioni che si fiondarono sul selciato, inchiodandoli a terra sotto la rete pesante…

  "Fingi ancora di dormire… Ma io sono sicuro che sei sveglio, Diabolik" – disse l’ispettore Ginko – "Sei sveglio e stai pensando alla tua compagna. Ti chiedi se Eva Kant è riuscita a sfuggire alla cattura… Non è vero, forse?
  L’uomo disteso sulla brandina della cella rimase impassibile. I suoi occhi erano chiusi, come se dormisse. Ginko lo osservò per un lungo minuto: non era la prima volta che tentava di interrogare il suo peggiore nemico. Nella maggior parte dei casi, l’interrogatorio si era trasformato in un suo soliloquio. Tuttavia, Ginko era sicuro che dietro quegli occhi chiusi l’altro in realtà era sveglissimo e consapevole della sua presenza, della telecamera che seguiva ogni suo movimento, degli uomini al di là delle sbarre della cella della morte. Lo sguardo di Ginko sfiorò il polso fasciato dell’altro:
  "Sono sicuro anche che sei furioso, per aver fallito il colpo. Per inciso, anche se non avessi fatto scattare quell’allarme, saresti stato catturato lo stesso: le macchine erano già in strada ed i posti di blocco erano già scattati quando è suonato l’allarme. E’ stato il ragazzo del distributore di benzina a denunciarti: si era impasticcato per restare sveglio e il narcotico di Eva lo ha solo stordito per qualche minuto. Quindi è strisciato all’interno del distributore e ha chiamato la polizia, descrivendo la donna – la diva, come la chiamava lui – che lo aveva aggredito al distributore… E chiedendo il rinnovo del permesso di soggiorno, in cambio della denuncia."
  Nessuna reazione apparente. Ginko continuò:
  "Se può consolarti, il giudice Morissot sarà accusato di tentato omicidio, per avere messo del veleno nella lama che scattava alla falsa combinazione, che lui era condizionato a dire sotto pentotal." – fece una smorfia – "Lui sostiene che è grottesco essere accusato di tentato omicidio nei confronti di un uomo già condannato a morte, ma dovrebbe conoscere la legge, no? Comunque, per tua fortuna, la lama ti ha solo graffiato, e ti è entrato in circolo una dose insufficiente ad ucciderti. Ti sei salvato dal veleno… Però non ti salverai dalla ghigliottina. Non stavolta." – la sua voce si approfondì, diventò più dura – "Infatti, Eva questa volta non potrà aiutarti. L’abbiamo catturata."
  Diabolik trasalì. No, non poteva essere vero!
  "Poco dopo essere sfuggita a un posto di blocco, è stata intercettata di nuovo dai nostri elicotteri dalle parti di via della Stazione. Si è vista imbottigliata e si è infilata nel tunnel sotto la ferrovia, ma ho fatto bloccare tutte le uscite. Ha tentato di forzare il blocco. Abbiamo dovuto chiamare i pompieri, con la fiamma ossidrica per estrarla dalle lamiere della macchina. Inutile dire che è stato fatto il controllo del volto: era lei."
  Diabolik aprì gli occhi ed incrociò lo sguardo con quello di Ginko. Conosceva ogni piega di quel viso, avrebbe capito subito se gli stava mentendo. No, non gli stava mentendo. Non c’era traccia di esultanza in lui: l’uomo sembrava solo spossato per la notte passata in bianco.
  Si tirò su. Aveva bisogno di sapere:
  "…Come sta?" – chiese, infine.
  Ginko si appoggiò alle sbarre della cella, fissando l’avversario:
  "Non bene… Anche se non è in pericolo di vita. E’ ricoverata all’Ospedale centrale, con fratture alle costole e al bacino. La tengono in una specie di coma artificiale…" – esitò – "Penso che sia anche meglio così, data la situazione."
  "Ossia, permetterete che si svegli dall’anestesia solo quando la ghigliottina avrà fatto il suo lavoro… Quando io sarò morto" – tradusse Diabolik.
  L’ispettore per un istante distolse lo sguardo. Non voleva essere là… Quella cella era troppo stretta, troppo soffocante per starci in due. Non c’erano finestre sull’esterno per dare aria alla cella. Tanfo di disinfettante e di dolore ristagnava nelle pareti, nel pagliericcio sulla brandina, nelle stesse sbarre d’acciaio che gli premevano contro la schiena. Decise di tagliar corto:
  "Cosa cercavi nella cassaforte del giudice Morissot? Lui dice che ci sono solo documenti privati…"
  "E tu ci credi?"
  "Certo che no!"
  "Fai bene. Nel pomeriggio, Morissot ha ricevuto una tangente di cinque milioni di euro"
  Ginko non si aspettava una risposta. In ogni caso, non così rapida e brutale:
  "Chi ha pagato? Per cosa?"
  "Chiedilo a lui. O se non gli va di rispondere, leggi il giornale della settimana scorsa e lo capirai da solo"
  Ginko assentì, prendendo nota. Non ricordava che fossero apparse notizie importanti sul giornale della settimana precedente, ma avrebbe controllato. Si voltò, facendo segno alla guardia di aprire la cella:
  "Ci rivedremo fra due giorni, Diabolik" – disse Ginko, uscendo – "E sarà l’ultima volta"
  L’altro lo guardò freddamente:
  "Addio" – rispose. Rimase a guardare l’ispettore che si allontanava lungo il corridoio.
  Poi, con la stessa freddezza, si distese di nuovo sul giaciglio. Non voleva che l’agente di turno alla telecamera riuscisse a capire quanto in realtà stava soffrendo.
  "Eva…" – invocò fra sé – "Per favore, fa’ che sia solo uno dei tuoi trucchi…"
  Quel maledetto giudice! Avrebbe dovuto usare l’asta telescopica, per girare la manopola della sua cassaforte. Ci aveva pensato, ma lì per lì gli era sembrato un colpo così facile… Ed il ragazzo del distributore: che stupido a non averlo ritenuto un pericolo!
  "Eva… Mi hai sempre detto che la tua vita era legata alla mia. Per favore, amore mio… Non pensare a me. Sopravvivi!"
  Pensò a lei. Ad occhi chiusi, gli sembrava di sentire sulle labbra il calore della pelle di lei, delle sue labbra. Ricordava ogni centimetro della sua pelle, ogni filo dei suoi capelli. Pensò a lei, le sue dita inanellavano ciocche dei suoi capelli bagnati, dopo l’immersione a capo Darven. Pensò a lei, addormentata su un fianco, con il primo sole del mattino che attraverso la persiana veniva a striarle la pelle. Pensò a lei, con indosso il maglione che lui si era appena tolto, di fronte al fuoco, con le fiamme che si riflettevano nei suoi occhi e finti brividi di freddo che invitavano a darle tutto il suo calore. Pensò a lei…
  I rumori della prigione lo disturbavano. Sentiva porte che sbattevano, urla da un lato all’altro. Le voci degli agenti di guardia alla sua cella parlavano di calcio, del tempo gelato e di aumenti che tardavano. E, seminascosto dalle voci, come un ritmato battere di martelli, che sembrava risuonare dal di là del muro. Escluse le voci, e rimase in ascolto del puro suono, avvertendo ogni nota, ogni singola scansione cadenzata della ghigliottina.
  Si accorse che una voce femminile dietro l’angolo stava protestando:
  "Ma mi hanno già perquisita due volte!"
  Lui era l’unico ospite del braccio della morte: la donna, chiunque fosse, veniva a vederlo. Giornalista o predicatrice? Non gli interessava, qualunque merce spacciasse. Poco dopo, sentì la porta della cella che si apriva.
  "Diabolik?"
  Lui non rispose. Non aprì neanche gli occhi.
  "Io… Credo di poterle salvare la vita"
  Diabolik si voltò, sorpreso. Squadrò incredulo la ragazza che era appena entrata nella sua cella. Piccola, magrissima, vicino ai quaranta. I suoi capelli erano di un castano sfatto, spioventi sopra un viso triangolare, pallidissimo, che mostrava tracce di efelidi sul naso. Dietro un paio d’occhiali troppo grandi, occhi talmente chiari da essere slavati. Il completo grigio e la borsa a tracolla mostravano segni evidenti delle perquisizioni subite. Rassomigliava ad un topino, così, in piedi nella cella, con in faccia un’espressione incerta se essere più imbarazzata o impaurita. Avanzò di un passo, tendendo la destra:
  "Mi… Chiamo Marina Badinter. Sono stata nominata suo avvocato d’ufficio"
  "Avvocato d’ufficio?" – si stupì lui. Incuriosito, si alzò, prendendo la mano che gli veniva porta. Lei strinse piano, poi lasciò la sua mano come se scottasse. Si appoggiò al tavolino del pranzo, aprendo goffamente la borsa che aveva in mano.
  "Si. Per assisterla nelle pratiche legali precedenti… Si, insomma, precedenti alla…Esecuzione" – spiegò.
  "Toh, è una novità, questa!" – commentò Diabolik.
  "Novità? Veramente, no" – rispose il topino – "Ogni condannato ha diritto ad avere l’assistenza di un difensore, per gli appelli e le richieste di grazia dell’ultimo minuto. Se l’avvocato che ha difeso il condannato durante il processo ha rimesso il mandato, deve essere nominato quantomeno un avvocato d’ufficio. E’ la legge."
  "Davvero? E’ la prima volta che ne vedo uno."
  "Oh, sicuramente sono stati nominati degli avvocati anche le altre volte: altrimenti, l’esecuzione non può avvenire. Solo che si saranno limitati a firmare gli atti senza neanche leggerli" – una smorfia di disgusto comparve sulla faccia del topino – "Succede quasi sempre, come se non ci fosse una vita in gioco…"
  Aveva tirato fuori delle carte. Esitò:
  "Per la verità, ho fatto io in modo da essere nominata difensore d’ufficio nel suo caso."
  "Perché?"
  "Perché lavoro per un’associazione che si batte contro la pena di morte… E perché so come fare per salvarle la vita!" – disse il topino. Lui non riuscì a nascondere un moto di incredulità. Lei sorrise: se lo aspettava. Aveva labbra sottili, che piegandosi mostravano rughe ai lati della bocca:
  "Non mi crede?…Sono mesi che studio tutte le carte del suo processo. In previsione del… Ecco…"
  "Della mia cattura" – completò lui.
  "Dell’occasione giusta" – lo corresse – "Dieci anni fa, poco dopo il suo processo, venne presentato il primo serio progetto di legge abolizionista per la pena di morte e venne approvato da uno dei rami del parlamento. In quell’occasione, l’organo di autogoverno dei magistrati approvò un ordine del giorno in cui si chiedeva a tutti i magistrati d’Assise una moratoria nelle condanne a morte, in attesa dell’approvazione definitiva della legge di abrogazione: sarebbe stato iniquo condannare a morte qualcuno quando la stessa pena di morte era in attesa di una pronuncia a suo carico. Però il governo di allora ed i governi che si sono succeduti non hanno mai approvato definitivamente il progetto di legge di abrogazione…"
  "Conosco la storia" – troncò lui. Sapeva che non c’erano state più condanne a morte dopo la sua. Non per una abrogazione, ma per una sorta di accordo fra avvocati, pubblici ministeri e magistrati.
  "Beh, in questo periodo ci sono delle voci allarmanti… Visto che il progetto di legge non è mai stato approvato, i magistrati vogliono ripristinare a pieno titolo la pena di morte."
  "Anche per gli altri, suppongo. Per me, la pena di morte non è mai stata messa in discussione. Neppure dagli abolizionisti come lei" - La fissò con durezza.
  Marina si morse le labbra:
  "Si, lo ammetto. La sua condanna era precedente alla moratoria. Tuttavia…"
  "Tuttavia?"
  "Ho scoperto un vizio di procedura nel processo che la condannò a morte" – disse – "Proponendo un appello dell’ultima ora alla Corte Suprema, possiamo farlo valere, e far annullare il processo."
  "Annullare?" – Diabolik era sbalordito – "Che significa? Che il mio processo dovrebbe essere rifatto tutto daccapo?"
  "Esattamente" – Gli occhi del topino scintillavano oltre le lenti – "Sarebbe l’occasione per impostare la difesa su un processo alla pena di morte. Ed è l’occasione per scuotere le coscienze della gente, farla riflettere su quello che è la pena di morte. Mi dia fiducia, Diabolik: quando avrò terminato la mia arringa, i giurati avranno orrore di…"
  "Di diventare assassini, come me?" – l’interruppe, scuotendo la testa - "In una parola, vorreste usarmi per la vostra campagna. E perché dovrei farmi usare, di grazia?"
  Lo guardò allibita:
  "Come? …Nel migliore dei casi, la nuova condanna ricadrebbe nella moratoria e lei vivrebbe… Nel peggiore, avrebbe quantomeno una dilazione. E’ più di quanto possa prometterle chiunque!"
  "Tranne Eva, se fosse libera" – pensò Diabolik in un lampo – "Ma se non lo fosse…? Se fosse realmente lei la donna in ospedale?"
  Fissò la donna, dritto negli occhi:
  "No" – disse, semplicemente – "Io non mi faccio usare da nessuno. E’ chiaro?"
  Le rughe all’angolo della bocca piegarono verso il basso. Si alzò, riprendendo le carte e ficcandole nella borsa:
  "Mi dispiace che la pensi così. Avrei voluto la sua collaborazione per farlo… Vedo che non è possibile. Forse non sono stata abbastanza chiara, o abbastanza persuasiva" – rispose – "Ma il tribunale mi ha nominato suo avvocato d’ufficio… Agirò nel suo interesse, che lei lo voglia o no." – si avvicinò alle sbarre, facendo segno al secondino di aprire - "Io… Per la verità, per non perdere tempo, avevo già presentato la richiesta per l’udienza d’appello dell’ultimo istante. E’ fissata per dopodomani mattina. Può anche non presentarsi, se crede. Io ci andrò… E farò tutto quello che potrò per salvarle la vita. Lo faccio per me. Per la mia associazione. Per quello che penso sia giusto… E anche per lei!…"
  "Non posso impedirglielo… Non da questa cella, almeno"
  Non ribatté. Oltrepassò le sbarre della cella della morte, a capo chino. Il secondino richiuse la serratura, facendo risuonare le chiavi. Lei si voltò. Oltre le lenti troppo grandi, il suo sguardo era pieno d’angoscia.

  C’era poco tempo. I cancelli si aprirono, le auto entrarono di corsa, a sirene spiegate, attorniando il furgone cellulare. Il rumore delle frenate in corsa rimbombò lugubre fra le mura ai piedi della ghigliottina. L’ispettore Ginko scese dall’auto. I suoi occhi vennero calamitati dal palco del patibolo.
  "E’ pronta, quindi" – pensò – "Io, invece, non sono pronto a portare Diabolik da lei… Forse, non lo sarò mai. Né per Diabolik né per chiunque altro."
  "Andiamo!" – ordinò. Attraversò il cortile, seguito da quattro uomini. Di fronte a lui si spalancò il secondo cancello. Ignorò le finestre sbarrate delle celle, cui si affacciavano uomini vocianti in attesa dello spettacolo.
  Entrò nel braccio della morte. Diabolik lo attendeva in cella, già ammanettato.
  "Devo portarti in tribunale" – disse, seccamente. Trasse di tasca un oggetto, che mostrò a Diabolik.
  "Hai preso una delle mie maschere?" – La maschera di plastica riproduceva il suo volto.
  "Già, una di quelle maledette maschere che sono il tuo orgoglio. Una delle tante che si trovano nel deposito oggetti di reato… Stavolta la tua invenzione verrà usata contro di te: la indosserà il sergente Clemens, che ha la tua corporatura. Lui poi prenderà posto in macchina, con me. Tu invece…" – dalla tasca trasse una seconda maschera. Un lampo passò sul volto di Diabolik, quando riconobbe il volto biondo.
  "La riconosci? Avevi questo volto, la prima volta che ti ho arrestato! Ho poi sequestrato questa maschera nel primo rifugio, quello che avevi con il nome di Stefano Garian. Tu metterai questa maschera ed andrai nel cellulare"
  "Ginko… Sotto sotto, tu sei un sentimentale…" – commentò Diabolik, con scherno. Afferrò la maschera e l’infilò, intralciato dalle mani legate.
  L’ispettore si voltò verso Clemens, che aveva indossato la maschera di Diabolik, e gli mise le manette:
  "Clemens, tu ed io andremo per primi. Chiunque sia interessato a liberare Diabolik per mettere le mani sui suoi bottini, dovrebbe essere ingannato da questo trucco…" – fece cenno agli altri agenti di circondare Diabolik ed afferrò Clemens per un braccio:
  "Voialtri due, andrete in cellulare con Diabolik. Avrete due macchine di scorta sia all’andata che al ritorno. Tenetevi costantemente in contatto ed avvertite per qualsiasi cosa… Chiaro? Andiamo, allora!"
  Il muro dei giornalisti venne oltrepassato facilmente. Ginko entrò nel palazzo del Tribunale, guardingo. Gli agenti tenevano lontano la folla di avvocati, testimoni, semplici curiosi che passavano nei corridoi. Al loro passaggio, tutti si voltavano a fissare l’uomo ammanettato che era con lui. L’ispettore colse un volto conosciuto: il giudice Morissot era venuto in Tribunale. Si sarebbe occupato di lui, molto presto.
  Entrarono nella piccola stanza adiacente all’aula. Una donna con la toga era seduta ad un tavolino, assorta nella lettura di alcune carte. Si alzò, vedendoli entrare:
  "Sono felice che abbia deciso di venire…" – si interruppe, vedendo l’uomo togliersi la maschera. Lo sguardo dietro gli occhiali si allargò per lo stupore.
  "Il vero Diabolik arriverà fra poco, con il cellulare" – le disse Ginko, togliendo le manette al sergente – "Immagino che lei sia l’avvocato Badinter…"
  Lei annuì:
  "Quante precauzioni!" – commentò. Guardò affascinata la maschera in mano al sergente.
  "Con Diabolik di mezzo, non ci sono mai precauzioni sufficienti" – ribatté l’ispettore, squadrandola.
  Lei ricambiò lo sguardo, senza simpatia:
  "Posso capire la sua posizione, ispettore. Tuttavia, lei cerchi di comprendere la mia… La pena di morte è un residuo barbarico. Per di più, è assolutamente inutile: le statistiche dimostrano che non ha nessun valore preventivo… Non c’è stato alcun aumento della criminalità nello Stato di Clerville da quando è in vigore la moratoria, nessuno!"
  "Lo so" – disse Ginko – "E sono d’accordo con lei"
  "Davvero?" – si stupì la donna – "Pensavo che lei fosse…"
  "Favorevole alla pena di morte? Si, un tempo lo sono stato. Ho smesso di esserlo la prima volta che ho assistito ad una esecuzione." – fece una smorfia – "Poi, quando al posto di Diabolik andò a morire George Caron, segretario del ministro di giustizia…"
  Prese in mano la maschera di Diabolik:
  "Guardi questa maschera… E’ perfetta. Anche al tatto, non si può distinguere la plastica di cui è composta dalla pelle umana. E’ tanto perfetta da ingannare chiunque. Pensi a quanto sarebbe facile, per Diabolik, farsi riprendere da una telecamera mentre uccide qualcuno con il volto di qualcun altro. Pensi a quanto sarebbe difficile, per chiunque, difendersi. Ci sono stati dei casi in cui ho dubitato delle mie indagini, delle prove che avevo trovato… Non saprò mai se quanto ho testimoniato sotto giuramento in tribunale era la verità, in quei casi."
  "Lei ha paura per gli innocenti, ispettore… Io anche per i colpevoli" – disse Marina.
  L’ispettore non ebbe il tempo di replicare. Si voltò, sentendo la porta aprirsi dietro di lui:
  "Tutto a posto, ispettore… Niente da segnalare" – lo salutò uno degli uomini, facendo entrare Diabolik.
  "Bene…" – iniziò Marina. Il suono di un campanello venne ad interromperla.
  "Tocca a noi…" – si chinò sul tavolino, raccogliendo le carte.

  "Nel corso del procedimento in discussione, l’imputato non nominò mai un proprio difensore." – diceva Marina – "La difesa venne sostenuta dall’avvocato Umberto Dergas, del foro di Clerville, nominato d’ufficio dall’allora Presidente della Corte d’Assise. Tale nomina fu condotta irritualmente, sia per ragioni di fatto che per ragioni di diritto. Di diritto, perché l’atto di nomina del difensore non porta alcuna data – e per ciò stesso dovrebbe essere considerato nullo – ma anche di fatto, perché l’avvocato nominato era strettamente imparentato con Emanuela Dergas, moglie di Giulio Varen. E Giulio Varen era una delle presunte vittime di Diabolik, di cui quel processo discuteva!"
  Marina fece una pausa ad effetto. Non sembrava più un topino, in quel momento, rifletté Diabolik. Era una tigre, che difendeva i suoi principi con tutta la forza di cui era capace.
  "Avere un equo procedimento è diritto fondamentale di ogni imputato. Ogni imputato: anche di Diabolik! Tale diritto è stato negato, nel momento in cui è stato nominato con atto nullo un avvocato che avrebbe dovuto immediatamente manifestare la propria incompatibilità con l’incarico assegnato. Questo non è stato fatto! Chiedo quindi l’annullamento del processo in oggetto ed il suo rinvio alla Corte competente."

  "Questa Corte, riunita in sessione straordinaria, ha così deciso: respinge l’appello in quanto non ritualmente presentato da avvocato iscritto presso il Foro di Clerville. Dichiara sanato il vizio di forma di cui al mandato dell’avvocato d’ufficio e prescrive che la pena ascritta sia immediatamente eseguita…"

  "Mi dispiace…" – Marina singhiozzò – "Mi dispiace… Soprattutto di averle dato una falsa speranza. Adesso, la uccideranno" – disse – "Sono già tutti pronti: ghigliottina, boia, testimoni…"
  "Coraggio… Avrà presto un’altra battaglia da combattere" - Diabolik prese la borsa della donna. Trovò un pacchetto di fazzoletti di carta. Ne tirò fuori uno e lo porse all’avvocato – "Si soffi il naso, avvocato. I giornalisti là di fuori aspettano una sua dichiarazione. Non si sa mai… Per voi potrebbe anche essere un buon punto da cui partire per una nuova campagna…"
  Indossò di nuovo la maschera bionda e fece cenno all’ispettore, che aspettava dietro di lui:
  "Possiamo andare…" – uscì, senza voltarsi indietro.

  La strada per la prigione non era lunga. Diabolik entrò nel cellulare, seguito dai due agenti, che chiusero il portellone dietro di loro. Le macchine con il sergente Clemens e Ginko erano già partite. Il furgone mise in moto dietro la pattuglia che faceva da battistrada. La seconda auto di scorta si accodò immediatamente. Le auto uscirono dal parcheggio sotto il tribunale. Sopra il furgone iniziò a tamburellare il rumore di pioggia battente. Diabolik si sfilò la maschera, trattenendola fra le dita. Ricordava la strada. Poco più di dieci minuti di percorso. Al termine, la ghigliottina. Lui era pronto.
  La pioggia si accanì contro il tetto del furgone. Diabolik sentì che rallentava, probabilmente la visibilità era diminuita.
  Curva a destra. Adesso dovevano essere su via del campo. Non potevano poi riprendere via delle rose, la strada era a senso unico. Dovevano svoltare su via dei martiri, poi prendere il rettilineo di via delle peonie. C’era un loro trucco su quella strada, nel centro commerciale Auran che stavano ristrutturando. Forse Eva nella fuga lo aveva adoperato. Di certo, lui non poteva azionarlo, senza telecomando. Alla fine di via delle peonie, si imboccava la sopraelevata. La prima uscita della sopraelevata portava alla prigione. E alla ghigliottina.
  I due uomini lo stavano guardando con odio e paura. Uno gli puntava contro la mitraglietta che portava ad armacollo. Non li avrebbe presi di sorpresa. Si aspettavano che lui li attaccasse, manette o non manette.
  Via delle peonie. Doveva trovare il modo per stornare la loro attenzione. Il tetto rimandava il suono della pioggia, sembrava un cuore battente. Le sirene delle pattuglie giungevano attutite all’interno del furgone. Facevano fatica a farsi strada: il rettifilo doveva essere pieno di traffico a quell’ora. Gli agenti della pattuglia dietro gli avrebbero sparato, se lo avessero visto saltare giù.
  Il furgone prese una strada in salita: la sopraelevata. Strinse la maschera fra le dita. Doveva essere adesso, o…
  Una mano invisibile lo proiettò contro la parete di fronte. Sentì dolore alla testa, per un istante non comprese più nulla. Il furgone sbandò, si inclinò su un lato.
  "Cosa è successo?" – sentì urlare. Qualcuno alla radio dell’agente rispose:
  "Il furgone! Il furgone ha perso una ruota…"
  "… Ma non è possibile!"
  Uno degli agenti spalancò a fatica il portellone. Il furgone era pericolosamente in bilico. Dalle pattuglie che circondavano le auto scesero gli agenti, maledicendo la pioggia.
  Qualcuno urlò, rovinando a terra. La pioggia era diventata metallo pungente. Diabolik alzò lo sguardo: dai fanali della sopraelevata si stavano lanciando migliaia di aghi.
  "E’ un agguato! E’ Eva Kant!" – ruggì l’agente che reggeva il portellone. Lo richiuse, di colpo:
  "Non riuscirai a fuggire, dannato! Non stavolta!" – afferrò di nuovo la mitraglietta. Diabolik tirò un filo nascosto fra i capelli della maschera.
  Uno scoppio. Gli agenti si protessero gli occhi dal lampo al magnesio. La maschera iniziò a bruciare, liberando un odore acuto di mandorle amare.
  Diabolik li guardò soffocare dal gas di cianuro. Trattenendo il respiro, perquisì il corpo del poliziotto, trovò le chiavi delle manette, le aprì. Spalancò il portellone. La pioggia d’aghi era terminata. La strada era cosparsa dai corpi addormentati degli agenti delle auto di scorta.
  Una auto nera era ferma al di là della strada. Diabolik si sfilò dal naso i filtri che aveva improvvisato con i fazzoletti di carta dell’avvocato e valicò di corsa la barriera, incontro alla sua Eva.
  "Amore…" – l’abbracciò, con trasporto – "Come hai fatto? Chi è la donna in ospedale?"
  Lei avviò il motore. La jaguar fece un balzo in avanti. In lontananza si sentivano sirene della polizia che si avvicinavano al furgone cellulare. Il suono si attenuò fino a scomparire.
  "In realtà è semplice. Avevo sentito la radio della polizia e sapevo che c’erano blocchi dappertutto. Era solo questione di tempo e gli elicotteri mi avrebbero individuato. Dopo aver usato il trucco al centro commerciale, ho messo la maschera d’emergenza e sono andata a viale della Stazione. Ho trovato una delle prostitute che avevamo individuato per un caso del genere, e l’ho tirata su…"
  "Avevi una maschera maschile?"
  "Veramente, no…" – il volto di Eva Kant s’illuminò di una smorfia maliziosa – "Però non è stata necessaria"
  "Quindi, ho narcotizzato la ragazza" – continuò – "Le ho incollato addosso la mia maschera, quindi, appena mi hanno individuato, sono entrata nella galleria…Sono scesa e ho spedito la macchina contro il posto di blocco. Approfittando della confusione sono scesa nella fognatura. Dopo poco sono uscita, ho rubato un’auto in sosta e sono tornata al rifugio. Ed ho cominciato a pensare a come liberarti"
  "Ho avuto fortuna, questa volta… Se non ci fosse stato quel trasporto…"
  "Fortuna?" –- sorrise lei – "Amore, non capisci che ho fatto tutto io? Mesi fa, mentre tu preparavi colpi e progettavi trucchi di fuga, io mi sono presentata a Marina Badinter come membro dell’associazione contro la pena di morte e l’ho persuasa a leggere le carte del tuo processo, sperando di trovare un appiglio per farlo annullare…" – si fece seria – "Amore, io ho sempre avuto così tanta paura di non riuscire ad arrivare in tempo… Comunque, aveva indosso un microfono. Così ho anche saputo del trucco di Ginko"
  "Un trucco che si è rovesciato contro di lui" – commentò Diabolik – "Non si è accorto che la maschera che mi stava dando era truccata…"
  "Adesso è tutto finito, amore mio… Fra poco saremo al rifugio"
  "Non tutto… Morissot ha un debito con me."
  "C’è tempo per questo…" – disse Eva, dolcemente. Frenò di fronte alla porta del rifugio – "Adesso, per favore… Baciami."


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